Bart Ehrman, E Gesù diventò Dio
Bart D. Ehrman, E Gesù diventò
Dio. L’esaltazione
di un predicatore ebreo della Galilea. Nessun Dogma,
Roma, 2018. Titolo originale: How Jesus Become God. The Exaltation of a
Jewish Preacher from Galilee. HarperCollins Publishers, New York,
2014.
Recensione a cura di Fabio Cigognini.
La prospettiva dello storico rovescia
quella del teologo, alla quale si ispirano per lo più il senso comune e
l’immaginario collettivo: Gesù non era “Dio fatto uomo”, ma “un uomo che è stato
fatto Dio”. Questa, in estrema sintesi, la tesi sostenuta in questo libro dal
suo autore, Bart Ehrman, docente presso la University of North Carolina (USA),
noto anche nel nostro paese per i suoi numerosi libri tradotti e le sue
eccellenti capacità divulgative.
Se l’ipotesi centrale del volume è
quella enunciata sopra, il quesito fondamentale che da essa scaturisce e che
guida tutto il percorso dell’autore è il seguente: “cosa portò i seguaci di
Gesù ad attribuirgli una natura divina […]? Cosa li convinse che Gesù, il
predicatore crocifisso arrivato dalla Galilea, fosse Dio?”. Nel rispondere a
tale domanda, l’autore dedica i primi due capitoli dell’opera a delineare il
contesto storico e culturale dell’antichità greco-romana e giudaica,
all’interno del quale è possibile rintracciare la cornice delle
rappresentazioni sociali e culturali che avrebbero reso possibile la
trasformazione di un predicatore galileo apocalittico, che annunciava
l’imminente fine del mondo ed il prossimo avvento del Regno di Dio, in Dio
stesso. Ehrman intercetta due fondamentali direttrici che caratterizzavano il
rapporto tra sfera umana e divina nell’antichità, consistenti nella possibilità
che un essere umano venisse divinizzato per esaltazione o adozione, oppure in
quella che una divinità assumesse temporaneamente una forma umana. Fondamentale
risulta anche la constatazione in forza della quale l’articolazione tra il
piano divino e quello umano assumeva nell’antichità pagana e giudaica una
struttura complessa. Di conseguenza, “uno
degli errori più frequenti nell’affrontare la questione è presumere che l’idea
diffusa nel quarto secolo e.v. – i regni umano e divino separati da un abisso –
fosse già in voga agli albori del movimento cristiano”. Dobbiamo invece
presupporre che la relazione tra il regno umano ed il regno divino
nell’antichità possa essere ben raffigurata dalla metafora della piramide, con
alla base l’umanità, al vertice la pienezza del divino ed in mezzo differenti
gradi di divinità e possibilità di divinizzazione. Questa osservazione consente
all’autore di anticipare già nel primo capitolo una tesi che verrà ampiamente
dibattuta ed approfondita nelle sezioni successive del testo: “[…] In principio
Gesù non veniva affatto assimilato a Dio. Furono i suoi seguaci, in un secondo
momento, ad attribuirgli un certo grado di divinità, ma non ancora pari a Dio
onnipotente in senso assoluto. Insomma, fu un processo graduale”.
Al quadro generale delineato nei primi
due capitoli ne segue uno dedicato alla figura storica di Gesù. Dopo avere
sinteticamente affrontato le problematiche e la metodologia relative allo
studio del Gesù storico, Ehrman esplicita la propria visione, che coincide con
l’adesione a quella linea di pensiero che vede in Gesù un predicatore
apocalittico: “[…] Esistono fondate ragioni per ritenere che Gesù stesso, e non
i suoi seguaci, professasse una visione pienamente apocalittica” Per l’autore
questa presa di posizione non è accessoria rispetto al tema che si prefigge di
approfondire nel presente volume; si tratta anzi di “un aspetto cruciale per
capire se [Gesù] si ritenesse divino o no”. Lo studioso americano trae le sue
conclusioni concernenti il Gesù apocalittico a partire da un’applicazione
rigorosa dei metodi utilizzati nella ricerca storica su Gesù, in modo
particolare servendosi del criterio di discontinuità e di quello della
molteplice attestazione indipendente delle fonti. Questo aspetto risulta di
fondamentale importanza proprio perché Ehrman è annoverabile tra quegli
studiosi che ritengono di non potere attribuire ai Vangeli canonici – assunti
come fonte principale – un elevato valore storico. Si rende pertanto necessario
di volta in volta uno scrupoloso utilizzo dell’arsenale metodologico al fine di
saggiare, da un punto di vista storico, la validità fattuale delle narrazioni
prese in considerazione. Ma vi è un altro aspetto – raramente menzionato dagli
studiosi - a cui il nostro autore ricorre per sostenere la tesi di un Gesù
apocalittico: “Gesù iniziò il ministero legandosi ad un impetuoso predicatore apocalittico
[Giovanni Battista] e subito dopo la sua morte sorsero comunità di seguaci
fervidamente apocalittici. Se l’inizio e la fine erano apocalittici, come
poteva non esserlo anche quanto stava in mezzo? […] Insomma, poiché Gesù era
inizialmente legato a Giovanni e poiché sulla scia del suo ministero spuntarono
subito le comunità apocalittiche, dobbiamo concludere che il ministero stesso
era caratterizzato da proclami apocalittici dell’imminente arrivo del Figlio
dell’Uomo, che avrebbe giudicato la terra e istituito il regno di Dio”. Alla
luce di questa premessa, come classificare l’autocoscienza del Gesù storico? In
altri termini: Gesù si considerava Dio? Ehrman: “La mia tesi è che, durante il
suo ministero, Gesù non andasse affatto predicando di essere Dio. Al contrario,
il suo messaggio era incentrato su un proclama apocalittico: la distruzione e
la salvezza erano imminenti, il Figlio dell’Uomo sarebbe sceso presto dal cielo
per giudicare la terra e la gente doveva prepararsi a questo cataclisma storico,
perché nel nuovo regno i giusti sarebbero stati ricompensati per essere rimasti
fedeli a Dio e avere rispettato la sua volontà, anche se questo li aveva fatti
soffrire”. Se dunque il Gesù della storia non affermava di essere Dio, egli –
secondo Ehrman – si autoproclamava invece messia: “A mio avviso, esistono
eccellenti ragioni per ritenere che Gesù si vedesse come il messia, in un senso
molto specifico e particolare. Il messia era il futuro sovrano del popolo
d’Israele, ma in quanto apocalitticista Gesù pensava che il nuovo regno sarebbe
stato istituito non per mezzo di un conflitto politico o militare, bensì grazie
al Figlio dell’Uomo, destinato a scendere sulla terra per giudicare chiunque si
opponesse a Dio. È mia convinzione che Gesù si considerasse il futuro re di
quel regno”. È bene precisare che l’autore ritiene che Gesù facesse riferimento
al Figlio dell’Uomo in terza persona: saranno successivamente i suoi seguaci a
identificare il Figlio dell’Uomo con Gesù stesso e tale identificazione costituirebbe
una tappa fondamentale di quell’itinerario che avrebbe condotto a fare di Gesù
Dio. Suggestiva è poi, a mio parere, alla luce della ricostruzione qui esposta
sinteticamente, la spiegazione che Ehrman fornisce del tradimento di Giuda:
“[…] Da un lato Gesù non si presentava mai in pubblico come futuro re, ma
dall’altro questa è esattamente l’accusa che gli viene rivolta al processo:
com’è possibile? La risposta più plausibile è che l’avessero saputo da Giuda:
in questo consiste il tradimento”.
Ma se Gesù non ha mai preteso di
essere Dio, cosa condusse i suoi seguaci, nel corso del tempo, a riconoscerlo
come tale? Per lo studioso statunitense,
una svolta decisiva in tal senso fu rappresentata dall’evento della resurrezione,
a cui sono dedicati due capitoli del libro, il quarto ed il quinto. A questo
riguardo, Ehrman si allinea alla posizione comunemente accettata dagli
studiosi: la resurrezione è un evento che si pone al di là dei confini di
pertinenza dello storico, il quale, adottando gli strumenti scientifici che gli
sono propri, non potrà certo determinare se la visione di Paolo o quella
attribuita a Pietro o alle donne al mattino di Pasqua siano “autentiche” o
semplici allucinazioni. Dunque, credere alla veridicità degli eventi narrati in
relazione alla resurrezione di Gesù costituisce un puro atto di fede che non
può essere in alcun modo supportato da prove storiche. Da ciò non è possibile
dedurre, come si potrebbe presuppore a partire da un’interpretazione
superficiale e troppo affrettata, che uno storico debba essere per forza di
cose non credente o assumere necessariamente posizioni scettiche oppure
agnostiche: occorre dare adito all’onestà intellettuale – tutt’altro che
scontata - del nostro autore, il quale dichiara esplicitamente che se da una parte
uno storico non è in grado fornire prove circa l’autenticità delle visioni e
quindi della veridicità dell’evento della resurrezione, dall’altra egli non può
nemmeno dar prova del contrario. Per queste ragioni, Ehrman propone un
approccio sostanzialmente di tipo fenomenologico al tema della resurrezione:
“Io non credo affatto che sarebbe un peccato sospendere il giudizio sugli
stimoli esterni, veridici o no che fossero, permettendo a credenti e non
credenti di trovare un terreno comune per poter discutere del significato
di quelle esperienze”. In sintonia con queste precisazioni, Ehrman ritiene di
potere individuare il nucleo dell’esperienza pasquale nel fatto che alcuni
discepoli avevano vissuto, dopo la crocifissione del loro leader, un’esperienza
che li convinse che fosse “risorto” e questo, come già accennato, fu un momento
fondamentale di quel processo graduale che portò all’identificazione di Gesù
con Dio. Il nostro autore informa inoltre i lettori del fatto che, nel
Cristianesimo delle origini, furono diverse le interpretazioni che vennero date
all’evento della resurrezione, con divergenze che si fondavano in modo
particolare sulla diversità del modo in cui veniva concepita la natura del
corpo del risorto – corpo “spirituale”, puro spirito, corpo in carne ed ossa -;
è altresì degna di nota l’attenzione che
Ehrman rivolge ad alcuni aspetti che ruotano attorno al tema che stiamo
trattando, aspetti che sono ben radicati nell’immaginario collettivo, ma che,
stando sempre al parere dello studioso americano, sarebbero di indubbia
fondatezza storica. Si pensi solo al noto episodio della tomba vuota che,
secondo Ehrman, costituisce una premessa indispensabile per affermare la
resurrezione corporea di Gesù, ma che non può godere di un solido fondamento
storico in quanto anche la narrazione del seppellimento in una tomba sarebbe
nata successivamente e non rispecchierebbe un fatto realmente accaduto.
Interessante, infine, è l’ipotesi che l’autore formula per spiegare la
“tradizione del dubbio”, presente nei racconti di resurrezione. Ehrman parte
dal presupposto per cui sarebbe inspiegabile un dubbio così persistente da
parte dei testimoni della resurrezione. Come chiarire allora la presenza
costante di questo dettaglio nelle narrazioni evangeliche? La risposta andrebbe
ricercata nel fatto che solo poche persone ebbero delle visioni: “Queste tre
persone – Pietro, Paolo e Maria [Maddalena] – dovevano avere raccontato le loro
visioni. Forse anche altri (per esempio Giacomo, fratello di Gesù) ne avevano
avute, ma è difficile accertarlo. Ascoltandole, molta gente finì per
convincersi che Gesù fosse risorto davvero, ma è possibile che qualcuno dei
primi discepoli non ci credesse. Il che spiegherebbe la forte tradizione del
dubbio nei Vangeli e l’insistenza (in Luca, Giovanni e soprattutto negli Atti)
sul fatto che Gesù doveva “dimostrare” di essere risorto pur trovandosi di
fronte ai discepoli. […]”.
La fede nella resurrezione, a
prescindere da che cosa si debba intendere precisamente con questo termine e
quale sia stata, nella sua specificità, la natura di tale evento, sancì gli
inizi della cristologia e all’argomento cristologico sono dedicati gli ultimi
quattro capitoli dell’opera. Sinteticamente, la traiettoria disegnata da Ehrman
prevede il passaggio progressivo da una “cristologia dell’esaltazione” ad una
“cristologia dell’incarnazione”. Questo vuol dire che, se quando era in vita
Gesù non fu mai visto come Dio, dopo che fu creduto risorto dai suoi discepoli
cominciò un processo a partire dal quale egli iniziò ad essere visto come un
essere umano adottato da Dio, dapprima al momento stesso della resurrezione
(tradizione prepaolina), successivamente al momento del battesimo (Marco) e
quindi in concomitanza con la sua nascita/concepimento (Matteo e Luca). Questo
“processo a ritroso” culmina con Giovanni, il più recente degli evangeli, in
cui Gesù viene identificato come l’incarnazione del Lógos (“incarnazione del
Lógos” non coincide, come sovente erroneamente si ritiene, con “incarnazione di
Dio”, ma di una sua “ipostasi”): Giovanni rappresenterebbe il punto di svolta,
lo snodo a partire dal quale il percorso delineato dal nostro autore
prenderebbe la direzione verso una “cristologia alta” (Ehrman preferisce la
locuzione “cristologia dell’incarnazione”) che ha il suo punto di arrivo col
Concilio di Nicea: “Il Cristo di Nicea è evidentemente lontano mille miglia da
Gesù di Nazareth, il predicatore apocalittico itinerante arrivato dalla Galilea
che si era inimicato le autorità romane ed era stato crocifisso seduta stante per
crimini contro lo Stato. Chiunque fosse stato veramente nella sua vita, ora
Gesù era diventato Dio a tutti gli effetti”. L’itinerario individuato
dall’autore, che qui ho cercato sinteticamente di riassumere, non deve essere
concepito in modo lineare, quasi che ad una “cristologia dell’esaltazione”
fosse subentrata in modo per così dire automatico una “cristologia
dell’incarnazione”, culminante con le dichiarazioni del Concilio di Nicea; al
contrario: si trattò, secondo Ehrman, di un cammino alquanto frastagliato, i
cui opinioni accettate in un primo tempo, diffuse nel mondo cristiano e
ritenute come vere, vennero successivamente bollate come eretiche. A questo
proposito, estremamente interessante è la riflessione condotta dall’autore
intorno al rapporto tra eresia e ortodossia. Da un punto di vista strettamente
storico, infatti, tale contrapposizione non ha senso. Detto in altri termini:
“eresia” è un vocabolo che lo storico userà solo con un significato
convenzionale, poiché esso, utilizzato in senso proprio, presuppone una
valutazione di natura teologica da cui lo storico si astiene poiché non risulta
essere di sua competenza. Il movimento o il gruppo che il teologo classifica
come “eretico”, per uno storico corrisponde semplicemente a quella parte che non
è stata in grado di prevalere e che pertanto non è riuscita ad affermarsi.
“Per comprendere Gesù ho dovuto
ricontestualizzarlo, ovvero adeguarne il messaggio ad una nuova epoca: quella
in cui vivo. A dirla tutta, sono convinto che Gesù sia sempre stato ricontestualizzato
da persone che vivevano in epoche e luoghi diversi […] dai primi seguaci
convinti che fosse risorto fino ad oggi. E così sarà sempre”. Ehrman fa questa
riflessione nell’”Epilogo” del volume. L’ho riportata per esteso perché ritengo
che la questione della ricontestualizzazione della figura di Gesù sia una delle
chiavi attraverso cui interpretare questo libro. Leggendolo, infatti, si ha
come la sensazione che la passione che muove lo studioso statunitense sia
legata al presupposto per cui le categorie tradizionali a partire dalle quali
il personaggio di Gesù è stato spiegato durante i secoli e che hanno informato
le rappresentazioni sociali, l’immaginario collettivo, il senso comune, ma
anche l’arte e la letteratura occidentali, siano diventate inservibili
nell’attuale contesto storico e culturale. La storia allora diviene quella
disciplina che ci consente, al di là di ogni raffigurazione tradizionale, di
approssimarci il più possibile al “Gesù autentico”, consapevoli però della
limitatezza intrinseca agli strumenti propri di tale disciplina e del suo
statuto epistemico: “Per gli storici, “storia” non è sinonimo di “passato”. Il
passato è tutto ciò che è accaduto prima d’ora; la storia sono gli eventi di
cui possiamo stabilire l’autenticità con gli strumenti a nostra disposizione.
[…] Ci sono una miriade di episodi passati che non possiamo ricostruire”.
Ciò assodato, occorre evidenziare che
Ehrman padroneggia una mole considerevole di dati e informazioni e che li sa
esporre con un linguaggio comprensibile a chiunque. Del resto, le sue doti di
divulgatore sono note anche al pubblico italiano. Consiglierei il libro in modo
particolare ai lettori meno esperti, i quali potranno beneficiare della
possibilità di apprendere una molteplicità di contenuti e di approcciare
problematiche note soprattutto agli studiosi. Anche il lettore più ferrato,
però, potrà trarre spunto da alcune ipotesi originali formulate dall’autore,
alcune delle quali sono state evidenziate in questa sede. Particolarmente
apprezzabile, infine, è la capacità di Ehrman di destreggiarsi tra i contenuti
di discipline – quali ad esempio la psicologia – che raramente vengono prese in
considerazione da storici ed esegeti o che, quando ciò avviene, sono
padroneggiate in modo discutibile. L’orizzonte della discussione risulta essere
in tal modo notevolmente allargato. Così, lo storico americano, nei capitoli
dedicati al tema della resurrezione, fa una digressione interessante sulle
visioni provocate dal lutto, discutendo i risultati di alcune ricerche
sperimentali condotte in ambito psicologico ed allargando poi la visuale
attraverso un breve ma significativo excursus circa le visioni di Maria e di
Gesù nel mondo contemporaneo. Se quelli che ho elencato sinteticamente possono
essere considerati i pregi del volume, sono portato a vedere in alcune
semplificazioni eccessive i suoi limiti. Si ha l’impressione, leggendo il
testo, che talvolta il nostro autore tenda a dare per assodato un certo
consenso generale tra gli studiosi intorno a temi che sono invece tuttora
oggetto di dibattito. Ad esempio, se è certamente corretto affermare che
l’esegesi è oggi orientata a vedere in Gesù una figura
escatologico-apocalittica, è altresì vero che tra i ricercatori una minoranza
non concorda con questa prospettiva e che, in ogni caso, il discorso
sull’escatologia di Gesù è più articolato e complesso di quanto Ehrman sembri
presupporre. Sorprende, poi, a questo riguardo, l’assenza di qualsiasi accenno
alle parabole. Allo stesso modo, il rapporto tra i Sinottici e Giovanni è meno
lineare di quanto appaia dall’esposizione dell’autore. Nonostante queste
perplessità, ritengo in generale che si tratti di un volume pregevole,
senz’altro degno di essere letto.